DIEGO RANDAZZO. Immagini simili / studio 1

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Distanza e vicinanza, fuggevolezza e sottile empatia: davanti ai lavori di Diego Randazzo è facile sentirsi sospesi in un limbo di non immediata comprensione, come se qualcosa di invisibile si frapponesse tra lo spettatore e l’opera, che poi non è altro che un’emanazione necessaria del suo essere in quanto artista e uomo. Sebbene infatti la patina vagamente estetizzante possa far pensare, ad un primo sguardo, ad un esercizio di stile, in realtà dietro alla sua ricerca si cela un universo che ha molto a che vedere con il suo vissuto e, ancor più, con il suo percepito. 

Immagini simili nasce da una riflessione emersa durante la pandemia del 2020: la pausa forzata, la solitudine, la scoperta della domesticità in una casa abitata da poco hanno portato Randazzo a fare i conti con la fragilità, una fragilità nuova nella sovrapposizione di personale e globale che le circostanze storiche dirompenti hanno prodotto. Laddove gli stimoli esterni sono stati banditi, l’artista ha sentito l’esigenza di gettare ponti tra il presente e il passato, tra ciò che è vicino e ciò che è lontano. Per farlo è risultato naturale cercare la materia prima in ciò che era a disposizione, ovvero il proprio archivio personale di fotografie, scattate nel corso degli anni spesso in pellicola analogica. Scorrendo i ricordi di un viaggio in Cina nell’estate del 2017, l’attenzione è ricaduta su alcuni scatti realizzati al Rockbund Museum di Shanghai, dove era in corso una personale di Philippe Parreno[1]. Lì l’attenzione era ricaduta su una ragazza distesa a terra con il telefono in mano, in una stanza del museo illuminata da un grande lucernario sul tetto. Un’immagine non costruita esteticamente, né con particolare valore affettivo, ma più che altro documentativa: un modo disinvolto di vivere il luogo espositivo da parte della giovane cinese? O, forse, a ripensarci, si trattava di una performance? Ma, ancora, quel senso di desolazione nella stanza stanza spoglia, non pare un’anticipazione di ciò che avremmo provato tre anni dopo durante il lockdown? Quella figura immersa nello spazio bianco del white cube, immortalata piuttosto distrattamente durante le tante tappe di una vacanza, diventa un’entità affascinante proprio perché enigmatica e aperta a molteplici stratificazioni di letture. Individuata come immagine sorgente, questa diviene il cardine della ricerca da cui si diramano le diverse fasi di sviluppo illustrate in questa mostra. 

Il primo nucleo di opere nasce dall’inserimento di tale immagine in Google Images, dopo essere stata ri-fotografata digitalmente: i risultati affini selezionati dall’algoritmo sono sorprendentemente privi della figura umana. Stanze vuote, architetture spoglie, ma della ragazza non è registrata alcuna presenza. Walter Benjamin, nella sua Piccola storia della fotografia, parla della differenza tra occhio umano e occhio fotografico: «la natura che parla alla macchina fotografica è […] una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente […]. La fotografia […] rivela questo inconscio ottico, così come la psicoanalisi fa con l’inconscio pulsionale»[2]. L’inconscio ottico è qui disvelato da un algoritmo, come se queste immagini fluttuanti e anonime dicessero psicanaliticamente molto di più di noi rispetto alla consueta (auto)narrazione imbastita sul web e sui social. In altre parole, noi siamo costituiti anche da quello che ci circonda, o meglio: lo sguardo laterale vede più di quanto pensiamo razionalmente. 

Randazzo tuttavia scompagina presto le carte: zoomando sulla ragazza e inserendo così l’immagine su Google, il risultato è completamente diverso. Questa volta compaiono soggetti immersi nello spazio, che vengono ripresi attraverso la pittura acrilica su foglio da spolvero. Se prima il passaggio era da digitale ad analogico, ora l’apporto della téchne umana è maggiore e storicamente antecedente. Un ritorno alla pittura che implica un cambiamento della profondità di campo, che da ampia – talmente ampia da includere solo lo sfondo – diviene estremamente ridotta. «Fare cinema senza fare cinema», secondo le parole dell’artista: uno dei suoi interessi primari, che torna come un filo rosso in tutto il suo percorso, dagli studi sugli esperimenti del pre-cinema alla reiterazione seriale dei medesimi soggetti in movimento. 

Tale predilezione è evidente, effettivamente, anche nel terzo ciclo, nella scelta di usare la tecnica della cianotipia pur su un supporto classico come il marmo di Carrara frantumato. Su questi frantumi sono raffigurate immagini derivate dall’inserimento su Google delle didascalie delle anteprime delle immagini. Ora la perdita del contesto e del significato originario è portata all’estremo: resta il puro significante e null’altro. Questa profonda messa in gioco del racconto unitario riguarda anche il superamento dell’autorialità: l’artista, partito dal proprio archivio personale, lavora su immagini pubbliche, prive di copyright, vaganti libere sul web. La molteplicità dei contenuti porta alla constatazione non della varietà, ma dell’omologazione dei contenuti. 

Cosa resta, dopo questo processo decostruttivo? Ciclicamente, l’ultimo lavoro che chiude idealmente la mostra prevede l’utilizzo di una macchina istantanea ibrida, digitale e analogica. La giovane, tramite fotomontaggio, è inserita in una delle stanze della prima serie; l’immagine, scomposta in un grande mosaico, è virata verso il blu, richiamando le cianotipie del terzo nucleo ma anche la pittoricità del secondo. In un acuto gioco di scatole cinesi, Randazzo ci riporta alla realtà del suo vissuto a Shanghai, questa volta includendovi però l’esito della smarginatura potenzialmente infinita delle immagini di Google.

Gettare ponti, si diceva: tra passato e presente, tra archivio privato e dominio pubblico, ma anche tra le stanze interiori – domestiche, emotive – e il mondo fuori, in un momento in cui l’accesso ad esso è stato proibito. La cassetta degli attrezzi è fornita dal linguaggio della finzione filmica, nel senso etimologico di fingĕre, ovvero plasmare: se la narrazione è necessariamente frantumata, resta sempre la capacità di proiezione verso l’esterno, fornendo una rappresentazione che è un garbuglio dove «ogni minimo oggetto è visto come il centro d’una rete di relazioni […] moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventino infinite»[3]. Superare la vertigine e farne uso è una scelta di coraggiosa, immaginativa libertà. 

Bianca Trevisan


[1] Synchronicity. Philippe Parreno, Rockbund Art Museum, Shanghai, 8 luglio-17 settembre 2017.

[2] W. Benjamin, Piccola storia della fotografia (1931), in Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Einaudi, Milano 2012, p. 230.

[3] Italo Calvino riferendosi a Carlo Emilio Gadda nella lezione sulla Molteplicità in Id., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 1993, pp. 106-107.